2021
Lasciava che i pensieri vagassero quando, dopo cena, perdeva qualche minuto sul balcone che si affacciava sui cortili interni, incorniciati da palazzi per lo più sgangherati, che la mettevano a suo agio e la invitavano a mostrare le sue debolezze.
A volte arrivava il profumo del mare, spinto dal maestrale su per via Quintino Sella. Al rifugio Quintino Sella non era mai arrivata, una delle poche volte in cui non ce l’aveva fatta. Curioso. Si era trasferita al mare a chilometri di distanza e si ritrovava all’angolo di quella via. Il profumo si mescolava a quello che saliva della pizzeria al pian terreno. Una volta aveva assaggiato la pizza mare e monti. Doveva rientrare e preparare gli zaini dei gemelli per il campo estivo. Alla loro età lei passava le estati tra la casa di una nonna e l’altra, con i suoi cugini. Un clacson.
Pensieri che passavano veloci come i monopattini elettrici che sfrecciavano silenziosi per la città, sbucando all’improvviso, in contromano, come quegli stessi monopattini.
Pensieri che lasciava entrare e uscire e che facevano come il mare quando raggiunge la battigia e si porta via un po’ di sabbia e i segni delle dita. Lasciando una conchiglia e facendo scivolare via un sassolino. Spostando un’altra conchiglia di qualche centimetro. Riempiendo una buca scavata qualche ora prima. Trascinando al largo un giochino dimenticato, restituendolo alla terra ferma qualche metro più in là.
1986
Era il suo quinto compleanno e c’erano tutti. C’erano le candeline, i regali e la torta. Dietro agli occhiali spessi e tondi era tutto un po’ sfocato. Gli occhi di Leo a volte andavano dove volevano, sovrapponendo gli alberi e i palloncini, la mamma e la zia.
Qualcuno riprendeva con una cinepresa.
Le piccole narici sottili inspiravano l’aria calda di luglio, la terra, i pasticcini. La felicità gli saliva sino all’attaccatura dei capelli.
Si sentiva blu come il mare che vedeva, una riga immobile, oltre la statale.
Gli avevano detto che tra qualche mese sarebbe andato in una clinica e lo avrebbero fatto dormire per un po’. Al risveglio gli occhi sarebbero stati dritti e avrebbe visto tutto in un modo nuovo. Non capiva il significato di quelle parole. Lui sapeva vedere così, ma dicevano che sarebbe stato meglio e di mamma e papà si fidava.
‘Vieni a spegnere le candeline!’.
I suoi compleanni sarebbero stati tutti pieni di sole come quello, pensava, correndogli incontro.
‘Adele smettila!’. La mamma inorridiva quando girava gli occhi e lei lo faceva apposta. A volte si sdraiava sul letto a pancia in su con la testa al posto dei piedi, lasciandola cadere indietro. Poi si guardava la punta del naso con sempre più insistenza, sino a sentir male ai bulbi. Vedeva tutto sovrapporsi e mescolarsi, come in un caleidoscopio.
Appena la guardava, lo rifaceva e allora ridevano insieme e la mamma le diceva che dalla sua pancia rideva anche la sorellina.
1987
Cotone bianco per le vele. Seta azzurra per il mare. Velluto verde per gli alberi. Colla, forbici. Leo accarezzava le stoffe e ne seguiva i contorni, guidato dalle lunghe dita della mamma. Vedeva con occhi più profondi di quelli bendati, imparando ad accendere luci di cui non esisteva l’interruttore.
Una mattina, svegliandosi per il trambusto, Adele aveva visto in soggiorno il letto della sorellina vuoto. I fili e i tubicini erano sparpagliati sulle lenzuola.
Riceveva solo risposte vaghe e iniziava ad intuire che era meglio non chiedere.
Non avevano mai giocato insieme, quella bambina la fissava e basta, sempre sdraiata con la testa girata da un lato. Allora le si piantava davanti, togliendole ogni visuale. Era l’unica che, anche se in quel modo strano, la guardava ancora.
2009
Aveva percorso sentieri di montagna più o meno complessi, spesso maledicendo ogni centimetro in salita, sguardo piantato a terra e fiato cortissimo. Un esercizio decisamente contro la sua natura, iniziato per caso, che Adele proseguiva come palestra per esercitare resistenza e capacità di sopportazione.
Sabato dopo sabato, da giugno a settembre, estate dopo estate. Troppo traffico per raggiungere il mare in giornata, meglio la montagna, meta meno battuta e più nobilitante. La cicala in spiaggia e la formica sui sentieri.
Scalava e raggiungeva e intanto si scalava e si sfuggiva.
Era certa che solo cercando di superarsi continuamente avrebbe preso bene le misure del suo essere e non si rendeva invece conto che, così facendo, si esplorava unicamente la pelle, al pari di come accarezzava i prati erbosi dei crinali.
Avrebbe dovuto percorrere ancora molti chilometri, non necessariamente in salita, prima di comprendere che, invece, doveva camminare fianco a fianco con se stessa, accettando di sporgersi per guardare in basso, correndo il rischio delle vertigini e di ruzzolare giù fino a chissà dove.
1987
L’infermera gli aveva tolto le bende e Leo aveva scoperto che le cose potevano essere viste in tre modi: per dritto, per traverso e accendendo luci che non esistevano.
Un giorno sulla credenza era comparsa una fotografia di sua sorella.
La mamma non rideva più, anzi, sembrava ritenesse sconveniente ridere.
Trovava sempre qualche faccenda da sbrigare, nella quale la coinvolgeva per poi rimproverarla di continuo. Fare, fare, faticare.
Altri giorni, per contro, non si alzava nemmeno dal letto.
Si lamentava di ogni cosa e persona, non stava più bene in alcun posto, ma continuava a stare. Adele assecondava tutto. Si era trasformata in un soldatino sempre ubbidiente, composta, silenziosa e affaccendata.
Il papà, invece, si perdeva in trasferte lavorative d’oltralpe sempre più lunghe e i rari giorni in cui si tratteneva a casa, si susseguivano litigate e pesanti silenzi.
Anche se aveva imparato a prevedere le cause di possibili attriti e a mettere in campo tutte le sue piccole abilità per evitarle, non sempre ci riusciva. Allora gridava in silenzio anche lei e si stringeva forte nel tentativo di assorbirsi. Si sentiva incapace e colpevole di vita. Poi cadeva nel suo pozzo profondo e buio. Non cercava la luce. Non la voleva.
Lentamente sarebbe risalita, ogni volta. Velocemente ci sarebbe ricaduta, ogni volta.
2011
La chiusura della filiale per cui lavorava l’aveva costretta a scegliere tra le dimissioni o il trasferimento a parecchi chilometri di distanza.
Era salita sul treno e aveva guardato sfilare i paesaggi.
Dopo una curva era comparso il mare, scintillante e sfrontato in quel mezzogiorno di aprile. Quella distesa troppo piatta le aveva sbattuto in faccia una nuova prospettiva e aveva sentito uno strappo allo stomaco: da quel momento, non avrebbe trovato cartelli che segnalavano l’alta via da seguire. Avrebbe dovuto tracciare da sola la sua rotta, o scegliere di non averne una.
2013
Al primo trasferimento ne era seguito uno ancora più lontano e più si allontava, nel tempo e nello spazio, più si avvicinava a se stessa, cominciando a guardarsi con sincero interesse, senza passare attraverso gli occhi degli altri.
Poi, durante una vacanza in barca a vela, lo aveva conosciuto.
La guardava con quegli occhi enormi, occhi che trovavano interruttori per luci che lei non sapeva di avere e le sfuggivano parole ed emozioni. Il mare arrivava al pozzo e lo riempiva e lo faceva straripare.
Cercava di difendersi come poteva da quelle maree che ancora la spaventavano, così aveva iniziato a guardarlo incrociando gli occhi. Rideva e voleva farlo ridere.
Per due giorni lo aveva guardato dritto, ora lo guardava sdoppiarsi e sovrapporsi. Poi si era arresa e aveva lasciato che lui continuasse a levigare le sue punte, portandosi via sabbia nuova.
2021
‘Tuffati!’
‘Lì non si tocca, ho paura.’
‘Se è per questo soffri di vertigini, ma in montagna ci vai.’
Così, alla fine, aveva scoperto che il profumo di mare che sentiva in certe sere estive quando le montagne erano un orizzonte fin troppo vicino, non era un’alchimia di giugno, ma arrivava dagli abissi profondi che vivevano dentro di lei. Da esplorare, per smettere di temerli. Non necessariamente da comprendere. Spesso, semplicemente, da accettare.
“SPLASH!”
Racconto di un tuffo